martedì 5 settembre 2017

(MO)DINI'S ON THE ROAD

GIORNO 2

Ci svegliamo riposati, l'insetto non identificato che mi si è posato sulla gamba prima di addormentarmi, per poi scomparire e lasciare un alone di mistero, ha poco influenzato il mio sonno profondo.
La colazione mi regala un ritorno al passato con il cioccolato caldo, mi ricorda la scuola, le macchinette automatiche e le file con il portaspicci tra le dita.
Controllo il meteo online mentre Luigi si aggiorna con i video sportivi.
Oggi è il giorno dei pastori, di Velika Planina, il villaggio di pastori più grande di Europa, o almeno così te la vendono online e così io l'ho tramandata alle amiche prima della partenza. Perlomeno le volte in cui la mia dislessia latente mi permetteva di pronunciare la parola pastore.
Ci mettiamo in macchina, Luigi ha deciso di ammettere ed arrendersi alla supremazia di Google Maps sulle Mappe dell'Iphone, avere ragione è sempre piacevole, ma si porta dietro delle responsabilità, ad esempio giustificare il girotondo che ci costringe a fare una volta usciti dalla città.
La nostra direzione ultima dista poco meno di un'ora da Lubiana, le strade che percorriamo da subito ci permettono di stupirci e innamorarci del paesaggio che ci circonda, dighe e centrali idroeletriche, montagne scavate dalle mani dell'uomo mostrano la loro polpa, il verde sembra sussurrare, non c'è nessuno qua, solo noi e la strada.
Mi lascio rapire dalle sporadiche forme architettoniche che si intravedono e mi lascio incuriosire da strutture di legno che solo dopo scopro essere utilizzate per conservare in ordine la legna tagliata e per far asciugare la paglia. Sono ovunque qua, ogni casa ne ha almeno un paio, variano le dimensioni ma non la struttura.
Giungiamo ai piedi della montagna dove ci aspetta una funivia obbligatoria a cui segue una seggiovia opzionale. Mi domando se siamo preparati al clima, scarpe da trekking comprate poco prima della partenza e calzinotti di spugna, il problema sono sempre i piedi tanto.
Saliamo sulla cabina che ci porterà su, la mia paura dell'altezza mi porta subito a valutarla un tantino sovraffollata ma mi piazzo davanti e osservo il paesaggio mentre i motori ci trasportano in alto, le montagne più verdi sotto di noi.
Da quassù la vista è perfetta, tira un po' di vento, quello che ti fa bene, si sente che l'aria è diversa, ci guardiamo con Luigi e con un sorriso ci diciamo che no, noi non siamo tipi da mare.
Vogliamo goderci tutto di questa pace, così ci beviamo una birra, in una piccola baita situata ai piedi della funivia che ci attende per portarci dai pastori, per portarci in cima davvero, non abbiamo fretta, non puoi averne quassù.
Beviamo e ci facciamo domande sulle auto che vediamo parcheggiate di fianco al Gatto delle nevi, siamo a 1300 metri adesso.
Solo dopo scopriamo che esiste una strada di montagna, sono 3 ore di tornanti.
Mentre le persone salite con noi già si dirigono verso la tappa finale, chi a piedi, chi in seggiovia, noi stiamo qua a goderci il panorama ancora per un po', il tempo di avere la fortuna di incontrare lui, un ragazzo in solitaria, kway azzurro e chitarra alla mano, suona un po', per se stesso, per la natura immagino e pure per noi, che di spalle alle vette più elevate lo ascoltiamo silenziosi.

La seggiovia era più lunga e ventosa di quanto non la immaginassimo, tra le risa, il freddo che entra nelle orecchie e i selfie stick, ci guardiamo intorno, le mucche che pascolano sotto i notri piedi penzolanti sembrano non calcolare minimamente la presenza umana che è stata trasportata in questo luogo.

Arriviamo in cima, la bocca spalancata dallo stupore, intorno a noi le nuvole che si muovono e piccole case grigie dai tetti spioventi popolano la radura, sotto di noi la nebbia e il silenzio più assoluto.
Camminiamo in questi prati verdi e sconfinati, evitando cacche di mucca, facendosi accarezzare dalle nuvole, tenendosi i cappucci aderenti alla nuca.

I pastori qua non sono come li rappresentano nelle foto pubblicitarie per turisti, non hanno costumi tipici, solo uno di loro, quello che ci accoglie alla baita e vende cartoline, l'unico rimasto a rappresentare dei tempi che furono. Adesso sono esattamente persone come noi, persone che ti accolgono per farti assaggiare i prodotti delle loro terre e delle loro vacche, persone che guardano diffidenti il turismo che ancora calmo ed educato pascola in queste valli.
C'è una capanna più affollata, quella dove i turisti, quelli a cui piace fare di continuo cose organizzate, quelli che si sentono rassicurati dal percoso già deciso, vengono trasportati da un calesse, vengono cibati, vengono allietati dal suono di una fisarmonica, che suona, e suona, e continua a suonare.

Ci allontaniamo da loro, e ci imbattiamo in una capanna, un cartello in inglese fuori recita “sour milk 2€, buckwheat spoonbrad 3€”, evidentemente non conosciamo tutti i termini, la linea del cellulare è fuori uso, così tentiamo la sorte, ci accomodiamo e con il linguaggio dei gesti chiediamo alla donna il cibo.
Mangiamo in due ciotole di dimensioni spropositate del latte acido e del grano saraceno accompagnato da ciccioli di grasso arrostiti, pizzoccheri destrutturati come li definisce Luigi, le donne si nascondono in casa e ci lasciano mangiare tranquilli sul tavolo di legno che affianca la stalla, il figlio gioca con i camion accanto a noi, di fianco a lui un pacco di biscotti da mondo civilizzato.

Dopo il pranzo la paura e le risate, passiamo in mezzo ad un pascolo intento a brucare, vitellini pocciano latte dalle grandi mammelle delle madri, tutte sembrano assolutamente ignorarci, tutte tranne una. Il vitello comincia a seguirci, avvicinarsi e poi sgroppa, io comincio a correre, Luigi si fa sgambetto da solo.
Tutto si risolve in un video virale, un polso dolorante e un mare di risate.

Starei tutto il giorno quassù, il clima, dopo qualche passo in salita, diventa l'ideale, regna la pace, e riesce facile dimenticarsi delle stanze senza condizionatore in cui lavoravamo fino a qualche giorno prima.
Solo nel tardo pomeriggio decidiamo di scendere, quella che in salita era stata seggiovia adesso diventa passeggiata in discesa, passi tra i ciottoli, scarpe sull'erba.
Siamo un po' stanchi ma rilassati come non mai, la pace risuona da dentro, saranno queste sensazioni di benessere che mi permettono di prendere con entusiasmo la proposta di Luigi di finire la giornata in modo alternativo, allo stadio Stožice a vedere la partita dell'Olimpija Ljubljana, la mia prima partita di serie A.
Senza sopresa scopro che il colore della squadra di casa è il verde, mi cingo il collo con la sciarpa che recita “Verjamemo v zmaji” (crdiamo nei draghi) e con un hot dog in mano mi godo il match in uno stadio quasi spoglio.
I draghi, il simbolo della città. Secondo il mito, l’eroe Giasone, risalendo il Danubio dopo aver rubato il vello d’oro e abbandonato Medea, uccise il drago che terrorizzava la zona paludosa e selvaggia dove secoli dopo sarebbe sorta Emona, la futura città di Lubiana.

































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