GIORNO 4
Mi siedo all'ombra
di un palazzo di fronte al Duomo, do finalmente adito alle richieste
silenti dei miei piedi.
Sono a Noto, la città d'oro, la patria del Barocco.
Ho dormito 9 ore stanotte, non mi capitava da troppo e, nonostante gli incubi, mi sveglio riposata.
Decido che l'ultimo giorno i ritmi possono rallentarsi, che posso prendermi più tempo, così inizio la giornata con una colazione in piazza Duomo, a Catania, con una pasta alla panna e fragoline di bosco.
Il sole che fa capolino dalla facciata mi stringe gli occhi.
Attendo l'autobus in Piazza Alcalà, l'introvabile, sono due ore per Noto.
Mi sveglio che siamo quasi arrivati, il pullman va a singhiozzi, seguendo l'andamento del traffico, a destra distese di limoni si alternano a ruderi avvolti da fichi d'india.
Fuori dalla porta della città mi danno il benvenuto bambini dell'Est, un pappagallino sulla mano destra, una pallina rimbalzante su quella sinistra.
Mi chiedo che vita faranno, loro e i pappagallini, se saranno felici.
Dopo una visita al convento delle monache di clausura e al suo tetto con vista sulla città intera, decido di concedermi il primo vero pranzo, seduta.
Sono a Noto, la città d'oro, la patria del Barocco.
Ho dormito 9 ore stanotte, non mi capitava da troppo e, nonostante gli incubi, mi sveglio riposata.
Decido che l'ultimo giorno i ritmi possono rallentarsi, che posso prendermi più tempo, così inizio la giornata con una colazione in piazza Duomo, a Catania, con una pasta alla panna e fragoline di bosco.
Il sole che fa capolino dalla facciata mi stringe gli occhi.
Attendo l'autobus in Piazza Alcalà, l'introvabile, sono due ore per Noto.
Mi sveglio che siamo quasi arrivati, il pullman va a singhiozzi, seguendo l'andamento del traffico, a destra distese di limoni si alternano a ruderi avvolti da fichi d'india.
Fuori dalla porta della città mi danno il benvenuto bambini dell'Est, un pappagallino sulla mano destra, una pallina rimbalzante su quella sinistra.
Mi chiedo che vita faranno, loro e i pappagallini, se saranno felici.
Dopo una visita al convento delle monache di clausura e al suo tetto con vista sulla città intera, decido di concedermi il primo vero pranzo, seduta.
Il tempo di attesa
non è una priorità per me oggi, a differenza della visuale.
Mi siedo fuori, di fronte a me la scalinata di una chiesa, sul tavolo spaghetti alle sarde e un bicchiere di vino bianco. Bevo tre sorsi e già lo sento impossessarsi delle gambe.
“Chi si ferma è perduto”, penso a questa banalità che mi fa alzare e riprendere a camminare.
Mi siedo fuori, di fronte a me la scalinata di una chiesa, sul tavolo spaghetti alle sarde e un bicchiere di vino bianco. Bevo tre sorsi e già lo sento impossessarsi delle gambe.
“Chi si ferma è perduto”, penso a questa banalità che mi fa alzare e riprendere a camminare.
La città si
sviluppa in salita, nella parte superiore del corso principale, mi
scoraggio un po', complice il vino, poi mi lascio trasportare dal
vento a favore.
Questa città è
piena di chiese.
Passeggio in silenzio, percorrendo i lunghi scalini che affiancano le piccole strade in salita.
Non ho un indirizzo, né una destinazione, mi godo i colori e gli scorci che mi restituiscono la pace.
Nel pomeriggio tardo faccio ritorno, ho un appuntamento con Josephine, la zia catanese acquisita.
Non l'ho mai conosciuta e già mi tratta come una figlia, ogni giorno un messaggio di aggiornamento, è tutto ciò che chiede per accettare con più serenità l'apprensione per il mio viaggiare da sola. E' la cugina di un amico di mamma, mi aspetta con suo figlio per una cena veloce.
Dopo una doccia decido di attenderla sorseggiando un mojito al gelsomino all'Ursino Buskers, forse un paio.
Carmelo, il parcheggiatore abusivo conosciuto la sera prima mi chiede un resoconto della giornata.
Ci tiene a farmi vedere il mare bello di Catania, la sua barca, sua moglie e i suoi figli.
Scorre le foto della galleria del suo cellulare incurante del concetto di privacy, io tento di assecondarlo.
Mi sento adottata dal quartiere, lo stesso che mi aveva fatto così paura la prima notte.
La zia di Catania mi offre un fritto di pesce e un passaggio per l'aeroporto, alle 4 di mattina, “tanto guida mio marito, se riesco vengo anche io, così ti aiuto con la valigia”.
Mi racconta della sua infanzia in America e della dipendenza da preoccupazioni.
E' tornata per prendersi cura della madre, in famiglia la chiamano USL, mi ricorda mia mamma.
Così se ne va anche l'ultima sera, tra mojito fruttati e dolci sorrisi.
Credo che Sicilia significhi famiglia.
Passeggio in silenzio, percorrendo i lunghi scalini che affiancano le piccole strade in salita.
Non ho un indirizzo, né una destinazione, mi godo i colori e gli scorci che mi restituiscono la pace.
Nel pomeriggio tardo faccio ritorno, ho un appuntamento con Josephine, la zia catanese acquisita.
Non l'ho mai conosciuta e già mi tratta come una figlia, ogni giorno un messaggio di aggiornamento, è tutto ciò che chiede per accettare con più serenità l'apprensione per il mio viaggiare da sola. E' la cugina di un amico di mamma, mi aspetta con suo figlio per una cena veloce.
Dopo una doccia decido di attenderla sorseggiando un mojito al gelsomino all'Ursino Buskers, forse un paio.
Carmelo, il parcheggiatore abusivo conosciuto la sera prima mi chiede un resoconto della giornata.
Ci tiene a farmi vedere il mare bello di Catania, la sua barca, sua moglie e i suoi figli.
Scorre le foto della galleria del suo cellulare incurante del concetto di privacy, io tento di assecondarlo.
Mi sento adottata dal quartiere, lo stesso che mi aveva fatto così paura la prima notte.
La zia di Catania mi offre un fritto di pesce e un passaggio per l'aeroporto, alle 4 di mattina, “tanto guida mio marito, se riesco vengo anche io, così ti aiuto con la valigia”.
Mi racconta della sua infanzia in America e della dipendenza da preoccupazioni.
E' tornata per prendersi cura della madre, in famiglia la chiamano USL, mi ricorda mia mamma.
Così se ne va anche l'ultima sera, tra mojito fruttati e dolci sorrisi.
Credo che Sicilia significhi famiglia.