domenica 19 agosto 2018

IO VIAGGIO ANCHE DA SOLA


GIORNO 1

Di adattamento.


La notte passa serena, nessun sogno da ricordare, come al solito.
Il sole che splende sulla città mi regala una visione più ottimistica, così, dopo un succo alla pera sorseggiato sul terrazzo del b&b con vista sui panni stesi, mi incammino.
Sembro equipaggiata per la guerra.
Seguo le voci e i colori del mercato cittadino, carni di tutti i tipi e le dimensioni fanno da cornice a vicoli di altri tempi. Uomini con volti di chi lavora da una vita promuovono a gran voce i loro prodotti, i prezzi si fanno al cestino.
Proseguo facendomi spazio tra polli ed agnelli, tra carciofi e limoni e mi sento meno sola.
Sono diverse ore che non parlo con qualcuno, tanto che quasi non ricordo il suono della mia stessa voce.
Ancora assorta tra i miei pensieri mi affaccio sulla piazza del mercato del pesce e rimango di stucco. Una piazza ribassata, nascosta ai raggi di sole già caldi di primo mattino, brulica di uomini di mare con stivali ai piedi e grandi guanti arancioni, brandiscono mannaie che lasciano cadere sopra inermi pesci spada. Il sangue cola giù, in secchi di acqua e ghiaccio e si confonde tra le urla.
Affacciati alla ringhiera superiore gli spettatori di quella che sembra essere un'opera teatrale minuziosamente inscenata. E' tutto perfetto, venditori ed acquirenti si muovono in armonia tra lumache, vongole veraci e polpi ancora in vita. Scendo tra loro con riluttanza, sembra di interrompere qualcosa. Un uomo mi ferma, “pesce fresco” indicando un polipo, “guarda come si muove” mi dice toccando con un dito il pesce nelle vaschette di polistirolo. “Te lo cucino io, non preoccuparti, a una bella così lo cucino volentieri” ribadisce mentre io comincio a mutare il colore del viso. “Oddio, ma che hai? Sei diventata tutta rossa, sei irriconoscibile rispetto a qualche secondo fa, facciamoci una foto per piacere.” Nessuno me lo aveva mai fatto notare con questo stile.
Sono le 11 di mattina e io decido di fare colazione con delle polpette di pesce, sarde alla beccafico sottoforma di palline rotonde che esplodono in bocca.
Resto al mercato ancora un po', tra vongole veraci che sputano acqua e carciofi alla griglia, poi riparto. La piazza con l'elefante è imponente e i turisti già camminano dalla parte dell'ombra. Il mio sguardo viene attratto dall'insolito, coperte stese sulle colonne della terrazza del Duomo. Mi avvicino, sorpasso il cancello e scopro una dimora a cielo aperto, proprio di fronte all'entrata principale. Donne con figli che prendono un caffè sulla tavola imbandita, proprio accanto ai quattro letti matrimoniali perfettamente rifatti, adagiati sul marmo antico.
Mi sento ospite a casa loro.
Non comprendo e non scatto, mi limito ad osservare con discrezione la donna dai capelli corvini allattare suo figlio.
Decido di darmi la possibilità di perdermi un po', destinazione finale il quartiere di San Berillo, il quartiere degli emarginati e delle puttane, il quartiere del recupero, della street art come seme di nuova vita.
Ci giungo camminando tra aranceti, sotto il sole, passando da parchi affollati da anziani dediti a bische.
L'ingresso è invitante, il pub della zona ha recuperato gran parte del quartiere con graffiti e piante colorate. Leggo che le porte dei vecchi bordelli ormai chiusi, sono state murate e poi dipinte, incuriosita, proseguo. Sopra di me le macerie e i resti di ciò che il terremoto ha lasciato di quel quartiere così centrale e popoloso. Tra le piccole strade deserte, la presenza di un uomo con la macchina fotografica in mano mi rasserena e mi fa sentire sicura, così continuo a seguire il flusso di graffiti che si snoda dentro un vicolo stretto. Ho l'occhio nel mirino quando sento netto il suono di un bacio a cui segue un “ci vediamo presto tesoro”. Mi volto dalla parte opposta, giusto il tempo di far uscire il cliente senza imbarazzo penso, poi proseguo con serena indifferenza e saluto la donna minuta e prosperosa che, uscita dal portone torna a sedersi sulla sedia di fronte ad esso.
Può bastare, mi dico.
Continuo a camminare, non avverto la fame così proseguo fino a San Giovanni li Cuti, con i suoi scogli lavici, la sporcizia e i palazzoni a picco sul mare. Poi un treno, non sono ancora sazia e non è ancora sopraggiunta la stanchezza a darmi un freno. Ci vuole un'ora per arrivare a Taormina, fuori dal finestrino si manifesta imponente l'Etna, con la sua neve e il suo camino fumante.
Dicevano che è un'immagine che ti perseguita, che segna ogni sfondo, io non lo avevo ancora scorto, lo sguardo incollato sulle terrazze fiorite dei palazzi.
Adesso però sembra accompagnarmi, lui, maestoso, dietro, cactus e fichi d'india, davanti.
Ora comprendo il termine i colori della Sicilia. Tutto risplende qua intorno.
Riapro gli occhi quasi a destinazione, l'avanzare dell'età non ha mutato la mia risposta ai mezzi in movimento.
La stazione di Taormina, sul mare, è in perfetto stile parigino. Ferro verde, lampioni art decò, affreschi e mattonelle colorate. E' incantevole.
Siamo in quattro ad attendere l'autobus che ci porterà su, verso la città alta, una coppia straniera piuttosto sotenuta, un ragazzo con lo zaino ed io, la ragazza con lo zaino.
Il primo autobus passa e tira dritto, probabilmente per le troppe persone a bordo, il secondo non passa. Al terzo che non si ferma cominciamo a valutare di dividerci un taxi, noi con lo zaino.
Non sarà necessario. Il panorama si espande sotto di noi, si vede Isola Bella e mare a perdita d'occhio.
A Taormina si sale sempre, in autobus e poi ancora a piedi, faccio il percorso con il ragazzo con lo zaino che mi parla della vacanza e di sé.
E' un ingegnere, originario di Benevento, trapiantato a Torino, è venuto in Sicilia per fare la traversata dell'Etna, da Sud verso Nord, passando per i crateri centrali. Si crea una sorta di legame muto, vicini ma non troppo, ci aspettiamo ma non parliamo quasi mai.
A tratti mi sento in trappola, poi penso che in questo posto, in cui i mezzi tendono all'anarchia, una compagnia non ingombrante può far comodo, così lascio che le cose vadano come stanno andando.
Saliamo verso l'antico teatro romano, il sole sta calando dietro le montagne e l'orario di chiusura si avvicina. Il panorama che si apre alla vista lascia senza fiato. Uno spettacolo senza lo spettacolo, il mare e l'Etna fumante si ergono dietro colonne dai capitelli corinzi. Scatto foto, come tutti, con la brama di portarmi dietro qualcosa di speciale, poi mi fermo un istante, spettatrice del tempo.
Tocco le rocce, le colonne adagiate per terra, come se potessero trasmettermi ciò di cui sono state osservatrici silenziose. Mi piace il contatto con gli oggetti, i materiali hanno qualcosa che le persone non possiedono, il più profondo silenzio. Il corso, la terrazza della piazza principale, il Duomo, tutto è popolato da turisti in fermento, io riesco a pensare solo a Mont Saint Michel ed al mio attacco di panico. Quando vedo tutti infilarsi in un vicolo più stretto delle spalle di un uomo medio, per farsi fotografare, mi stufo, voglio solo andarmene.
Il camminatore silenzioso è sempre lì, a qualche metro di distanza, rispettoso, penso che non se ne andrà, così lo lascio sbirciare nel mio mondo, nel mio momento speciale: il primo morso al mio primo cannolo al pistacchio. Ci salutiamo alla stazione, senza presentarsi, senza conoscere l'uno il nome dell'altra.









































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