venerdì 22 settembre 2017

(MO)DINI'S ON THE ROAD

GIORNO 8

Ultimo giorno di saluti e stupore, quello dei bambini, quello candido, quello che mi mantiene viva.
Ci congediamo dalla dolce signora dell'appartamento di Rovigno mentre io continuo ad osservare la pianta rampicante di kiwi che si snoda attorno alla pensilina, in un abbraccio congiunto alle viti che lasciano pendere i loro acini bianchi. Non ne avevo mai vista una, e mi sorprende accorgermi che neppure mi fossi mai chiesta da dove nascessero.

Ci concediamo un'ultima visita della città che abbiamo vissuto di notte, così cerchiamo parcheggio seguendo la memoria e le intuizioni visive legate al buio della sera prima.
Sotto i raggi del sole gode di tutto un altro fascino, i turisti affollano le sue strade ma non risultano più fastidiosi come ieri, anzi, oggi danno risalto ai colori che spiccano tra i suoi vicoli.
Siamo affamati così giriamo per le piazze e le strade lastricate. L'odore di pane caldo appena sfornato ci conduce al mercato affacciato sul porticciolo, dove piccoli balconi accolgono sdraie di vimini e mi fanno pensare a quanto rilassante possa essere quell'affaccio.
I banchi sono monotematici, i prodotti, ben distinti ed ammassati formano dei pattern, delle trame che ti incantano. Peperoncini, aglio e frutta richiamano la mia attenzione, così come i loro venditori, assorti nei loro pensieri mentre sventolano grappoli con una mano e con l'altra si discostano delicatamente le mutande dal sedere bagnato dal sudore.

Scatto qualche fotografia mentre un gruppo di giapponesi con gli ombrelli mi scorre attorno, mi piace risultare invisibile quando ho tra le mani la mia macchina fotografica, la sensazione di non essere notati ti permette di spingerti sempre un po' più oltre.
Eravamo tornati principalmente per la mostra di Mirò, quando mi accorgo essere composta di sole serigrafie, nonostante avessimo il compito di spendere le ultime Kune rimaste prima del cambio di Paese alle porte, decidiamo di tornare alla macchina.
Lascio a Luigi l'improvvisazione delle tappe lungo la strada, non abbiamo fretta di tornare a casa.
Ci lasciamo guidare dal navigatore attraverso le strade di montagna che collegano l'Istria prima alla Slovenia e poi di nuovo all'Italia. La musica e le tappe nei piccoli bar con i caffè al costo di una Goleador ci accompagnano in questo verde. Sono rilassata mentre penso al ritorno, guardo fuori dal finestrino aperto, mentre la mano che penzola si lascia dondolare dal vento del movimento.
Prima della partenza ho stampato dei fogli con delle indicazioni sui cartelli da seguire per evitare di pagare il pedaggio dei 10 km di autostrada Slovena che siamo costretti ad attraversare per raggiungere Trieste. Mentre cerco di dare indicazioni a Luigi, concentrata sui colori dei cartelli stradali, lui nota un piccolo agglomerato di case in cima ad una delle colline che ci circondano, incuriosito mi chiede di controllare, non dista molto dalla strada che stiamo percorrendo, così cerco sul navigatore e con piacevole stupore scopro che si tratta di Grisignana, la città degli artisti, unico comune a maggioranza italiana dell'intera Croazia.
Non so perché sia stato richiamato dal quel posto, ma senza farsi troppe domande decidiamo di farci tappa.
Una fontana con panni colorati stesi ad asciugare al sole ci da il benvenuto in questo piccolo paese fatto di pietra chiara ed infissi azzurri. Ci perdiamo nelle sue strette strade pullulanti di fiori e botteghe d'artista e pranziamo in un cortile in stile provenzale con della zuppa di funghi ed una pasta con la gallinella mentre ci facciamo un ripasso di storia leggendo online informazioni su Tito, il politico jugoslavo al quale è dedicata la piazza centrale del paese.
C'è una vista magnifica sulle verdi colline dell'entroterra da quassù, ci rilassiamo un po' prima di rimetterci in viaggio ed attraversare i confini.
Entusiasti di questa ultima tappa improvvisata ci dirigiamo verso Trieste, nessuno dei due l'ha mai vista nonostante gli amici che la abitano, così, una volta superata la desertica dogana che traccia il confine tra Slovenia ed Italia decidiamo di fermarsi, Piazza dell'Unità, Risiera di San Sabba e Stadio Nereo Rocco dove ci aspetta per un saluto un amico di Luigi in piena campagna abbonamenti.
Tento di evitare quest'ultima sosta, ma la sua immediata vicinanza alla Risiera gioca a mio sfavore.
Il paesaggio che ci circonda e ci fa strada verso il centro storico è affollato da enormi industrie e cantieri navali il cui grigiore viene spezzato solo dalle ciminiere bianche e rosse che si elevano verso il cielo e che nascondono l'odore del mare ancora invisibile agli occhi.
Troviamo parcheggio in prossimità della maestosa piazza principale.
Fa caldo, è un caldo diverso da quello a cui siamo stati abituati in questi giorni, mi accorgo di essere tornata in Italia perché i miei piedi tornano di nuovo a sguazzare nel sudore che si accumula nella suola delle mie Birkenstock.
Mi avvio verso il mare mentre Luigi scatta panoramiche di questa Piazza davvero maestosa, qui bambini accaldati sostano ai piedi di una statua patriottica, mentre accanto a loro una donna anziana, coperta da un impermeabile grigio, si lava mani e piedi nell'acqua salata che bagna le grandi pietre del molo. Penso alla sua storia, alla sua crocchia grigia e alle sue ciabatte rosa, guardo i bambini puliti di fronte a lei osservarla, mi fermo e per un po' mi scordo del caldo afoso che batte forte sopra la mia testa.
Reduce da questa sensazione malinconica decidiamo di rincarare la dose con una visita alla Risiera di San Sabba, l'unico campo di concentramento nazista presente in Italia.
Lo stretto e alto corridoio di cemento ci conduce al suo interno e ci incanala verso quelle sensazioni che continueremo a provare per qualche ora, sala dopo sala, stele dopo stele.
Grandi edifici dapprima adibiti alla pilatura del riso venivano poi riconvertiti a campo di prigionia utilizzato per il transito, la detenzione e l'eliminazione di un gran numero di detenuti, in prevalenza partigiani, prigionieri politici ed ebrei. Del forno crematorio è rimasto solo il segno nel muro, ma sono ancora presenti le celle di detenzione e la cosiddetta “cella della morte”, dove venivano stipati i prigionieri destinati nel giro di poche ore all'uccisione e alla successiva cremazione.
Qua dentro il buio e le pareti che trasudano orrore ti lasciano addosso la sofferenza, ci sono due uomini dentro con noi, parlano a voce troppo alta, sembrano dentro una puntata di Superquark con le loro storie raccontate con distacco, mi infastidiscono le persone che usano un tono di voce troppo alto in luoghi di morte, così esco e torno alla luce del sole per respirare un po'. Procediamo in silenzio, vicini, mi guardo intorno e inalo atrocità e cordoglio insieme.
C'è bisogno di immergersi nel passato più discutibile, è in posti come questo che si avverte la necessità della conoscenza più profonda che impedisca il perpetuarsi della storia più macabra.
Così ci immergiamo nel museo e osserviamo rapiti ogni testimonianza scritta e ogni video di processi postumi.
Con un groppo in gola, la bocca asciutta e non tante parole siamo costretti dall'orario tardo ad improvvisare un sorriso ed andare incontro all'addetto stampa della Triestina che ci sta aspettando per offrirci una birra e illustrare a Luigi le analogie e le differenze lavorative.
Lo stadio è più grande di quello che immaginavo, me ne sto in disparte in compagnia della mia birra ad osservare la fauna che affolla gli spalti, che inizia i discorsi con “ai tempi miei”, che racconta di trasferte e si lamenta per le barriere attorno al campo.
Mi diverte il loro accento e la storia delle polveri provenienti dalla Ferriera, che si sedimentano in tutto lo stadio, mi interessa.

“E' bello quando l'idea di tornare non ti spaventa”.






































martedì 19 settembre 2017

(MO)DINI'S ON THE ROAD

GIORNO 7

Ci svegliamo contenti di salpare l'ancora.
Prepariamo i bagagli, lasciamo il vino e la fattura, prendiamo le calamite ancora incartate sul frigo, non abbiamo una penna per il nostro messaggio per Jacob: “Lo lasciamo a te, per festeggiare gli esami”, così usciamo e con un sorriso sulle labbra lasciamo le chiavi dell'appartamento sotto al nano da giardino.
Facciamo colazione nella panetteria vicina al parcheggio, abbiamo una multa da pagare, dobbiamo controllare che non diventino due in assenza di spiccioli.

Ci avviamo verso l'ultima tappa, Rovigno, a 95 km da Trieste, il filtro evita strade con pedaggio ci permette di ammirare il paesaggio che ci scorre a fianco. Queste sono le terre dell'olio, distese di olivi circondati da filari di terra rossa si alternano a chioschi di degustazione e vendita dei prodotti locali che con le loro insegne verdi e gialle spiccano tra le rocce.
Arriviamo all'albergo con animo diffidente, ci troviamo in un quartiere residenziale a pochi metri dalla costa, scendiamo dall'auto e una signora bionda e sorridente sulla 50ina comincia ad agitare le braccia da una finestra un paio di piani più in su, facendoci segno di raggiungerla.
Mentre sistemiamo i bagagli il compagno della proprietaria ancora indaffarata nella pulizia delle camere adiacenti decide di invitarci a bere un caffè al piano di sopra, che poi è casa loro.
Mi guardo intorno, una parete rivestita di carta da parati con mattoni grigi che non combaciano attrae la mia attenzione, subito distolta dalle tre bottiglie di grappa che l'uomo appoggia sopra il tavolino del salotto.
Non importa che ora del giorno sia, se un Croato decide di darti il benvenuto, tu dovrai sorseggiare della grappa. Così, ormai rassegnata, stringo tra le mani il bicchierino colmo e lo ascolto raccontare del lavoro, degli spostamenti, della crisi economica e della Germania che non è più quella di una volta.
Cerco di non soccombere al caldo unito all'assenza di cibo e alla degustazione appena conclusasi, seduta in terrazza, la brezza marina tra le gambe distese.

Usciamo più per la ricerca del cibo che per la reale voglia della spiaggia all'ora di pranzo, la signora di cui mi accorgo solo adesso non conoscere il nome, ci invita a noleggiare le bici di sua sorella, per andare in spiaggia e spostarsi in città. Poche volte hanno visto una Rovigno così affollata, trovare parcheggio può trasformarsi in un incubo, così accogliamo il consiglio e ce ne andiamo con delle mountain bike senza lucchetto perché, come insiste a sottolineare, “qua non ruba nessuno”.
Il lungomare ha inizio, sul lato sud del centro storico, con un grande stabilimento balneare anni 90 che si erge a dominare la baia, continuiamo a pedalare nella pineta che costeggia il mare, solo pochi metri di ciottoli ci separano dall'acqua. Gente sdraiata su amache appese tra i pini si gode il vento fresco che da sollievo anche alle nostre spalle sudate sotto gli zaini.
Passiamo uno dei primi veri pomeriggi di completo relax, sdraiati all'ombra di un albero come piace a noi, sotto la schiena enormi rocce levigate, i piedi dentro l'acqua.
Raccolgo piccoli resti di conchiglie lasciate a riva dalla corrente, guardo i granchi cibarsi delle alghe che ricoprono il bagnasciuga con quei movimenti buffi delle chele, bevo una birra e mi inibisco osservando quelle piccole meduse bianche ed innocue che affollano i mari dell'Adriatico, quello pulito.

La sera ci dedichiamo una cena di pesce in un ristorante anni 90 di un albergo sul porto della città illuminata, il campanile della città vecchia che si erge solitaria in una piccola penisola in mezzo al mare conferisce un'aria romantica a questo luogo così affollato.
Con le bici alla mano saliamo fin lassù, tra gli stretti vicoli dove l'influenza della Repubblica Veneziana continua a farsi sentire, tra i panni stesi alle finestre e i ciottoli così lucidi e levigati che non rendono di certo semplice la scalata.
Passiamo così la nostra ultima sera, in silenzio, ad osservare le luci che si riflettono sul mare intorno a noi, mentre digeriamo una grigliata di pesce.











venerdì 15 settembre 2017

(MO)DINI'S ON THE ROAD

GIORNO 6

Nonostante la scomoda nottata ci svegliamo sereni e con un piano.
Tra un saccottino strabordante di marmellata ed un caffè, scegliamo di provare la gita in barca “Sandra, Medulin Excursions”.
Una barca gialla e rossa salperà dal porto della vicina Medulin per portarci alla scoperta del Parco Kamenjak che, assieme al centro abitato di Premantura, costituisce la stretta e verde penisola più a Sud dell'Istria. Pranzo di pesce a bordo, escursione della grotta e sosta di due ore nell'isola di Cielo per 20 euro, mi dice la voce femminile che risponde al telefono, non ce lo facciamo ripetere due volte e sotto un caldo cocente, unti di crema solare, ci presentiamo al porto in cerca dell'ombrellone rosso della cassa.
Siamo tanti, comincio a chiedermi se sia stata una buona idea, poi la suddivisione in varie imbarcazioni mi risolleva il morale.
Saliamo, la barca in legno laccato pare inizialmente non essere capiente abbastanza per tutti i sederi che devono condividere le panche, ma dopo poco ci sparpagliamo, chi a fumare una sigaretta con il vento tra i capelli, chi ad osservare la spuma del mare cozzare contro il perimetro dell'imbarcazione, chi a bere birra in lattina, chi a scattare fotografie al popolo vacanziero che, inerme ed inconsapevole, posa dalla riva. Luigi ha da subito preso confidenza con una famiglia italiana con cui condividiamo lo stretto tavolo da pranzo. Sono di Mantova, la figlia ha il mio stesso nome e la stessa età di mia sorella, fa ginnastica artistica e vuole solo tornare a casa sua. Marito e moglie sono due sportivi, sfoderano sorrisi e cominciano a scambiarsi domande con l'unico della coppia che riesce ad essere sempre ben predisposto a questo approccio, e non sto parlando di me.
Così, un po' ascolto, un po' sorrido, un po' intervengo, poi mi alzo e mi poggio sulla balaustra, il vento in faccia, il mare di fronte, la macchina fotografica salda fra le dita.
Una giovane ragazza croata comincia ad istruirci su ciò che andremmo ad osservare:
“Un faro da poco automatizzato, un solo guardiano, camere molto care a disposizione per essere affittate da chi vuole passare una serata romantica”, poi “una breve sosta di 20 minuti in una delle grotte più famose della costa, chi non sa nuotare resta a bordo, non disponiamo dei giubbotti salvagente, o meglio, ci sono, ma non sono utilizzabili” ed infine “pranzo a bordo e sosta di due ore nell'isola disabitata di Cielo”. Mi hanno sempre fatto sorridere i monologhi standardizzati multilingue delle guide turistiche, il loro viso fintamente disteso ed estremamente sorridente mentre vengono interrotte dai “Come? Cosa? Io non ho capito, che sta dicendo? Non sento”.Così rimango a fissarla con un'espressione di comprensione e sostegno.
Arrivati in prossimità della grotta buttiamo l'ancora, accanto a noi altre due barche con gli stessi colori in cui, questa mattina, ci hanno smistato.
La nostra è quella più lontata dall'ingresso della grotta, sono ancora indecisa se buttarmi o meno e cerco di calcolare quando potrei metterci io, tra le correnti ed il mio inconfindibile stile rana fuori dall'acqua, a raggiungere l'insenatura.
L'acqua qua è profonda 8 metri e piena di pesci, lo si vede anche da su.
Mi faccio coraggio e mi butto, palla gonfiabile vinta alla pesca della Sagra del Maccherone, maschera e boccaglio mi fanno da sostegno, Luigi subito dietro di me, con la stessa tenuta.
Galleggio non troppo lontano dalla barca abbracciando la palla, il viso sott'acqua mi permette di scorgere tutti quei pesci che ci nuotano attorno. I miei continui “Uh, guarda!” pronunciati con il boccaglio tra i denti, probabilmente mi rendono irritante.
Torniamo a bordo, mi sento soffisfatta ma non completa, alla grotta sarei potuta andare, così chiedo ad Elisa e a suo padre com'era.“A un certo punto la roccia della caverna toccava l'acqua quidi ti dovevi immergere per entrare dentro, c'era raggio di sole che penetrava dall'alto ed entrava in acqua, papà ha visto una medusa morta grande così, non scherzo, una figata”.
Come si può immaginare l'immagine del raggio di sole è stata clamorosamente affossata dal resto del racconto, guardo Luigi e siamo contenti così.
Mentre aspettiamo il pranzo mi avvicino sempre di più, in fondo non è così male il confronto forzato, a volte. Parlo con quasta famiglia del nord, ridiamo insieme e mi accorgo che mi stanno simpatici, che una volta scesi dalla barca per la sosta sull'isola, una volta ritrovato lo spazio aperto, non cercherò immediatamente di sbarazzarmi di loro.
L'isola è circondata da un mare cristallino, solo un sali scendi di persone che affollano il piccolo molo da colore ad una terra arida, fatta di enormi sassi bianchi a scivolo sul mare e arbusti ingialliti dal caldo che sbucano dall'entroterra.
Facciamo un bagno, poi, scarpine da scoglio ai piedi, ci inoltriamo in una camminata lungo la costa.

Il prezzo irrisorio per il servizio offerto assieme alla fuga dalle spiagge affollate della terraferma mi portano a gioire della scelta fatta.
Mi godo questa sensazione fino a quando non torniamo in appartamento.
Qui un sommesso Jacob, il propietario, ci offre una bottiglia di vino bianco locale per scusarsi ancora per i disagi causatici, parla un po' con noi poi se ne va, con i soldi tra le mani.
Chiude la porta e Luigi mi fa notare che “Elisa, quella bottiglia è aperta” mettendo il suo scuro vetro in controluce. Il mattino seguente ci lascerà davvero la fattura richiesta fuori dalla porta, la fattura di Maria Bidini, soggiorno dal 18 al 19 agosto.
Un genio.

La sera ci concediamo una cena seria, la prima della vacanza, abbiamo prenotato nel ristorante numero uno di Pola, Konoba Medeja.
Qui veniamo accolti dal suo proprietario Christian, un buttafuori, di aspetto e di fatto, voce gentile e arte dell'accoglienza alla mano. Un giornalista e una fotografa alle prese con una storia di passione e sacrificio. Un'esperienza culinaria che ci fa dimenticare il resto.